Non è facile la vita in Puglia per i gestori degli stabilmenti balneari. Tanto meno lo è nel Salento, sul quale – come noto – si fonda il grande e, a sentire la Regione, inarrestabile successo della Puglia turistica. Eppure, ogni volta che si affaccia la stagione estiva c’è qualche mannaia, burocratica o legislativa, che si abbatte sugli ombrelloni.
Questa volta è arrivata dal Consiglio di Stato, che ha messo una pietra tombale sulla nota vicenda dell’apertura 365 giorni l’anno stabilita dall’ultima ordinanza balneare della Regione. Intendiamoci, non è una storia che va avanti dall’anno scorso: ogni volta che la Regione ha provato a mettere nero su bianco la tanto decantata destagionalizzazione, quella che dovrebbe consentire alla Puglia di attrarre turisti non solo a luglio e agosto, è piombato qualche ostacolo burocratico. E, tra interpretazioni in punta di diritto e altolà imposti dalla Sovrintendenza, che impone di sgomberare le spiagge dalle strutture e dai servizi nell’area concessa agli operatori, si va avanti ormai da un decennio.
Cinque anni fa, a seguito dei ricorsi di alcuni operatori, la decisione del Tar di Lecce che li aveva accolti. Oggi la sconfessione di quella decisione da parte del Consiglio di Stato. Fermo restando il dovuto rispetto per le decisioni dei giudici e le obiezioni, a tutela del paesaggio, sollevate dalla Sovrintendenza, ci chiediamo: ma è normale un Paese nel quale un imprenditore, per svolgere la propria attività, debba passare dai gironi di un castello kafkiano fatto di vincoli, carte bollate, eccezioni, leggi e contro-leggi per un decennio?
Certo, non mancano i casi – anzi sono numerosi, soprattutto nel Salento – degli operatori balneari che, diciamo così, si sono allargati ben oltre ciò che era loro consentito dalle stesse ordinanze balneari: tratti di demanio pubblico interdetti, colate di cemento armato lì dove era richiesto il legno, strutture inamovibili lì dove era richiesto lo smantellamento temporaneo e finanche discoteche a cielo aperto lì dove era dichiarata semplice attività balneare. Ma, in questi casi, è evidente, ci sono i controlli e le forze dell’ordine chiamate a far rispettare le leggi quando vengono trasgredite. Che dire, invece, dei tanti operatori turistici che, ogni anno, sono costretti a tenere in piedi la loro concessioni “ballando” tra circolari e nuovi vincoli, “aperture” dagli enti locali e “chiusure” dal Ministero, investimenti su un’attività che dovrebbe reggere tutto l’anno e improvvisi dietro-front con l’obbligo di rimozione a poche settimane dal pienone estivo? E, soprattutto, si può davvero pensare che in queste condizioni le spiagge pugliesi possano attrarre turisti magari a marzo o ad ottobre, quando tedeschi o francesi che non disdegnano il sole primaverile o autunnale pugliese e scendono da una crociera o da un aereo trovano solo il deserto sul mare?
E ancora, quale investitore estero potrebbe lontanamente immaginare di investire in Puglia, tra strutture alberghiere che vivono solo pochi mesi l’anno (e nei restanti devono affidarsi a matrimoni e congressi) e spiagge dotate di servizi solo tra giugno e settembre, visto che nel resto dell’anno quei servizi ora si dice che possono restare e ora si sentenzia che vanno rimossi? In conclusione, se finora i tribunali non sono riusciti a dirimere la matassa e se le norme nazionali e regionali, sul tema, non hanno consentito di uscire ancora dal tunnel, chi potrà mai rimediare al pasticcio dei lidi? E chi mai potrà risarcire gli imprenditori onesti che, in perenne spauracchio del prossimo cavillo legislativo o burocratico, hanno provato a non far morire la Puglia di soli bed and breakfast?
Fonte articolo http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it